La Commissione internazionale di inchiesta sulla Repubblica Araba Siriana è stata istituita il 22 agosto 2011 dal Consiglio Onu per i Diritti Umani con la Risoluzione S-17/1 adottata in sessione speciale. Con tale Risoluzione, il Consiglio ha disposto l’invio urgente di una Commissione di inchiesta con lo scopo di condurre attività di indagine sulle presunte violazioni del diritto internazionale dei diritti umani commesse in Siria a partire da marzo 2011, identificare i responsabili dei crimini e accertarne la responsabilità. Il Consiglio ha più volte rinnovato il mandato della Commissione fino all’ultima scadenza, fissata a marzo 2023. L’attuale composizione della commissione d’inchiesta vede tra i suoi membri il brasiliano Paulo Sérgio Pinheiro, l’egiziano Hanny Megally e la britannica Lynn Welchman.
Le ragioni che hanno portato all’istituzione di una commissione d’inchiesta fanno capo alla grave crisi umanitaria scaturita nel paese fin dall’inizio degli scontri nel 2011. Il conflitto siriano appare molto complesso, sia per i diversi fattori di innesco (economici, politici, sociali e culturali), sia per gli attori coinvolti, locali e internazionali, che ne hanno influenzato le dinamiche. L’evoluzione del conflitto siriano si è esplicata nel corso di dieci anni a partire dal 2011, anno cruciale a cui risale l’origine del conflitto. Sulla scia delle manifestazioni di protesta che si tennero nel 2011 in Egitto, Tunisia, Libia, note con il nome di “Primavere arabe”, nel marzo 2011 a Damasco si svolsero una serie di manifestazioni per protestare contro il regime di Bashar al Assad. La risposta dura del regime alle proteste ha provocato una sanguinosa guerra civile. Nel 2013 il conflitto iniziò a trasformarsi a causa dell’ingerenza di attori esterni, tra cui il sostegno diplomatico-politico di Mosca al regime di Assad, l’insurrezione armata jihadista incarnata nello Stato islamico (Isis) nel 2014, l’intervento militare russo nel 2015, l’intervento della Turchia nel 2016 e il successivo appoggio americano alle forze curde. Il conflitto siriano ha causato la peggiore crisi umanitaria degli ultimi tempi, gravi violazioni dei diritti umani e un’importante emergenza migratoria.
Dall’inizio del conflitto si contano oltre 5 milioni di persone che hanno lasciato il paese, più di 350.000 vittime, con un pesante bilancio di civili. Oltre alle indagini e alle ricerche condotte dagli organi delle Nazioni unite, numerose organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, hanno pubblicato report sulle grazi violazioni dei diritti umani commesse in Siria qualificabili come crimini di guerra.
A poco più di un mese dall’inizio del conflitto, il Consiglio Onu per i Diritti Umani aveva espresso profondo rammarico per la morte di centinaia di persone durante le proteste in Siria e grave preoccupazione per le presunte uccisioni, gli arresti e le torture perpetrati dalle autorità siriane nei confronti di civili. Inoltre, il Consiglio aveva sollecitato la Siria a prendere misure urgenti volte ad ampliare la partecipazione e il dialogo politico, a garantire l’esercizio delle libertà fondamentali, condannando l’uso della violenza e chiedendo di porre fine immediatamente alle violazioni dei diritti umani come arresti e detenzioni arbitrarie, il divieto di accesso ai mezzi di informazione, le intimidazioni e le persecuzioni (Risoluzione S-16/1 del 29/04/2011).
Gravi violazioni dei diritti umani sono qualificabili come crimini di guerra o crimini contro l’umanità se presentano gli elementi definiti dallo Statuto di Roma, il Trattato che ha istituito la Corte penale internazionale nel 1998. L’art. 7 definisce crimini contro l’umanità, una serie di atti specificatamente elencati, tra cui omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, sparizione forzata, quando commessi, anche singolarmente, nell’ambito di un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco. Sono definiti crimini di guerra (art.8), invece, le gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949 (atti commessi contro beni o persone protette dalle Convenzioni: prigionieri di guerra, civili protetti, combattenti feriti o malati durante un conflitto) e altre gravi violazioni del diritto applicabile ai conflitti armati internazionali e non internazionali (tra cui la presa di ostaggi, attacchi indiscriminati contro la popolazione o beni civili, uso improprio degli emblemi distintivi delle Convenzioni di Ginevra (croce rossa e altri), l’uso di armi chimiche e altre armi letali al di fuori delle armi convenzionali).
L’ultimo report della Commissione d’inchiesta, pubblicato a settembre 2022, riferisce atti di tortura e altri maltrattamenti inflitti sistematicamente nei vari luoghi di detenzione (le testimonianze riportano l’uso di elettro-shock, percosse, bruciature oltre a condizioni igienico-sanitarie precarie). Permane una situazione di grave insicurezza nella regione del Dar’a, nel sud della Siria, caratterizzati da attacchi a villaggi con arresti e uccisioni di civili.
Ad Idlib, nell’area ovest di Aleppo e nella parte nord-occidentale del paese proseguono i bombardamenti che hanno provocato il danneggiamento e la distruzione di infrastrutture civili, sparizioni forzate, restrizioni alle libertà fondamentali, in particolare violenze e minacce contro la libertà di espressione che hanno impedito ad alcuni attivisti per i diritti delle donne di parlare pubblicamente perché temevano per la propria sicurezza.
La ricerca “Nessun luogo è sicuro per noi’: attacchi illegali e sfollamenti di massa nella Siria nord-occidentale“, pubblicata da Amnesty International, raccoglie le testimonianze di sfollati, medici e operatori umanitari oltre a video, foto, analisi di immagini satellitari e registrazioni audio che evidenziano il danneggiamento e la distruzione di 10 strutture sanitarie a Idlib e Aleppo con l’uccisione di personale sanitario e altri civili. Sono state svolte indagini anche sugli attacchi che hanno colpito sei scuole nello stesso periodo (gennaio-febbraio 2020) da cui risulta l’utilizzo, da parte delle forze siriane, di barili bomba sganciati per via aerea e bombe a grappolo sparate da terra, vietate dal diritto internazionale. Colpire deliberatamente civili e strutture civili viola un principio fondamentale del diritto internazionale umanitario sancito nell’art. 48 del I° Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (principio di distinzione tra civili e combattenti e tra obiettivi civili e obiettivi militari) e costituisce un crimine di guerra ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale.
Il conflitto in Siria ha registrato dei momenti di particolare gravità che hanno spostato l’attenzione dell’intera comunità internazionale; uno di questi è stato il presunto attacco con armi chimiche avvenuto nell’aprile del 2018 a Douma. A fine gennaio 2023 è stato pubblicato il terzo report relativo all’attività investigativa del team istituito dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW-Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons) il quale conclude che sussistono ragionevoli motivi per ritenere che le forze armate aeree siriane siano responsabili dell’attacco con armi chimiche (cloro gassoso) avvenuto il 7 aprile 2018 a Douma. L’utilizzo di armi chimiche costituisce una grave violazione del diritto internazionale, oltre alla violazione della Convenzione per la proibizione delle armi chimiche ratificata da 193 Stati, tra cui la Siria.
Il rapporto Amnesty 2021-2022 sulla Siria riporta un’analisi dettagliata della situazione dei diritti umani nel paese.
Quali responsabilità per la Siria?
La Corte penale internazionale è l’organo giurisdizionale internazionale competente ad accertare la responsabilità penale di singoli individui per i crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione. La Corte si attiva su iniziativa del Procuratore (motu proprio – art.15 dello Statuto) o su deferimento di qualunque Stato parte (art.14 dello Statuto), nei confronti di uno Stato parte della Convenzione, o che abbia accettato la giurisdizione della Corte, quando il crimine è stato commesso sul territorio o quando sia stato commesso da un suo cittadino. Queste condizioni limitano la competenza della Corte alla “membership” dello Stato. La Siria non ha ratificato lo Statuto e, stando alle condizioni per l’esercizio della giurisdizione sopra descritte, si escluderebbe la possibilità di procedere nei confronti dei rappresentanti delle autorità governative. Ma ci sarebbe un’altra strada percorribile, quella dell’attivazione della Corte su iniziativa del Consiglio di sicurezza Onu (art.13, b) dello Statuto). Nel caso della Siria, il meccanismo del deferimento da parte del Consiglio di sicurezza Onu è stato utilizzato nel 2014, ma ha trovato un successivo ostacolo nel veto esercitato da Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio. L’impossibilità per la Corte penale internazionale di attivarsi, grazie al Consiglio di sicurezza Onu come unica via verso la giustizia, solleva l’urgenza di riformare la struttura del Consiglio, soprattutto in riferimento allo status di membro permanente di alcuni Stati. Per fermare la scia di impunità, occorrerebbe dunque individuare delle vie alternative, dei veri e propri escamotage. Uno di questi potrebbe essere adire alla Corte per il crimine contro l’umanità consistente nella deportazione forzata di siriani nel territorio giordano, essendo la Giordania uno Stato membro della Corte. In alternativa si potrebbe agire attraverso la Corte internazionale di giustizia, cosa che porterebbe ad accertare la responsabilità dello Stato, come nel caso dei Paesi Bassi che hanno invocato la responsabilità della Siria per la violazione della Convenzione contro la tortura. Mentre il popolo siriano soffre per le disastrose conseguenze del conflitto, a cui si aggiungono quelle del grave sisma che ha colpito recentemente il paese, si evidenzia l’urgenza di porre fine ai combattimenti e allo stesso tempo di rafforzare i meccanismi di giustizia internazionale per assicurare alla giustizia i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani.
Francesca Cocozza